sabato 18 aprile 2015

Franz Falanga e il Maestro Carlo Scarpa

Oramai non si contano le chiacchierate e le conversazioni con l'amico e architetto Franz Falanga, durante le quali emergono storie, racconti, aneddoti. Uno di questi riguarda Franz Falanga ma non nella qualità di professore come ho imparato a conoscere ma esattamente dall'altra parte della barricata, cioè Franz Falanga allievo nel suo confronto niente po' po' di meno che con il Maestro Carlo Scarpa.
Ho chiesto a Franz di riscrivere questo racconto per poterlo pubblicare ed avere una nuova testimonianza di due personaggi quali sono Franz Falanga e Carlo Scarpa.


Carlo Scarpa


Ho avuto Carlo Scarpa come mio professore all’IUAV, nella seconda metà degli anni sessanta. Era sempre presente nelle ore destinate alle sue lezioni. Però dedicava queste ore non a lezioni sull’architettura ma alle correzioni delle esercitazioni degli elaborati dei progetti che ci faceva fare. Si imparava molto di più da una qualsivoglia correzione dedicata a un qualsivoglia argomento, che da una lezione dalla cattedra. I suoi assistenti si comportavano con lui in maniera estremamente devota e nulla più. Ho sempre pensato che loro, malgrado l’essere già di per sé laureati continuassero ad impara quotidianamente qualche cosa dal “professore”, così lo chiamavamo all’IUAV: “il professore”. 
Scarpa non era per nulla facile da controllare o da trattare, soffriva di simpatie e di antipatie. Uno studente gli era antipatico perché pur essendo bravetto aveva la faccia di uno che non aveva mai tastato il culo alle donne. Io, per esempio, non gli ero per nulla simpatico perché  detestava i colletti delle mie camicie, secondo lui troppo lunghi. In realtà lo erano, ma a me piacevano così, e inoltre, stranamente, non aveva alcuna simpatia per il meridione d’Italia, zona dalla quale provenivo. 
In compenso qualunque situazione accadesse mentre era con noi studenti, lui era capace di osservarla ad alta voce con l’animo dell’architetto e qui era addirittura entusiasmante. Ricordo che un giorno a Caorle, dove eravamo andati guidati da lui per individuare delle zone dove poi ognuno di noi  avrebbe dovuto realizzare qualche cosa, mentre eravamo per la stradina principale del Centro storico, che in pianta può essere paragonato  ad un pesce allungato, con,  al posto della lisca, la stradina di cui sopra,  si fermò di colpo e, ci indicò sulla pavimentazione di porfido un fiammifero spento proveniente da una bustina di Minerva. 

Il lungomare di Caorle . 2014 . foto di giorgio de luca

Qualcuno ricorderà che, negli anni sessanta, i fiammiferi delle bustine di Minerva erano colorati con degli improbabili colori che andavano dal color fegato a dei viola assurdi che più artificiali e orrendi non si può. 
Lui si fermò, chiese a qualche alunno se invece avesse dei fulminanti in legno, e avutolo, lo sfregò sulla scatola, lo fece bruciare per qualche secondo  e poi lo spense e buttò sul porfido molto vicino insieme al fiammifero color viola. 
E lì ci tenne per una oretta parlandoci di come i materiali si debbano accostare fra loro sempre con molto rispetto, per esempio il pezzettino di legno bruciato sul porfido era mille volte meglio che il fiammifero color viola che era lì per terra. Quindi il legno, nobile materiale, la pietra nobile materiale, il ferro nobile materiale, ed altri materiali altrettanto nobili non evidentemente nobili come l’oro ma molto di più ma  in quanto usati dall’uomo nel corso dei secoli sempre in maniera diversa. 
Gli studenti, evidentemente, erano rapiti dalla presenza di una tale personaggio e si sforzavano tutti di disegnare come Scarpa, di usare gli stessi cartoncini rosa pallido usati dal professore, di usare addirittura la tecnica dei “peletti” che servivano ad evidenziare una forma anzichè un’altra, si servivano dei pastelli colorati come Scarpa, e quando una parte del progetto pareva funzionasse lo fissavano sul cartoncino color rosa per poi continuare con altri tentativi, insomma una velatura dopo l’altra. 
A me quello sfacciato scarpeggiare dava molto fastidio, per cui utilizzavo fogli bianchi, evidenziavo le forme con matite nere morbidissime tipo la 6B, non usavo colori e non fissavo mai nulla sul cartoncino. 
Io ebbi l’incarico di progettare un bar a Caorle vicino la chiesa romanica con il campanile rotondo davanti la facciata, su un prato immediatamente sotto l’argine che difendeva Caorle dalle alte maree.

Il Duomo di Caorle . 2014 . foto di giorgio de luca

Progetto di estremo interesse per me, ma non per il professore. Ogni volta che gli portavo gli elaborato per una correzione, lui guardava i disegni esposti  e fissati con il nastro adesivo su pannelli di legno, e, quando andava bene, mi diceva e questo che cosa è? Indicandomi un punto nel disegno e con il bastone con la estremità di gomma, quella che toccava terra mi stracciava il disegno facendolo cadere per terra.
Carte tieni tu, carte tengo io si dice in Puglia, terra dalla quale provengo. La cosa certamente mi metteva in grosse difficoltà, non tanto perché avrebbero scoraggiato un bisonte,  ma perché si è ripetuta per ben tredici volte prima di fare l’esame, finché un giorno di novembre, andai nel suo studiolo all’IUAV e, in presenza dei suoi devotissimi assistenti gli dissi che tredici esami prima di arrivare alla laurea avevo iniziato a portargli i miei elaborati del bar di Caorle, che erano passati due anni, che io avevo superato altri tredici esami e che  di lì a due giorni mi avevano  fissato il giorno della laurea con il professor Samonà, per cui io dovevo fare con lui l’esame assolutamente il giorno dopo. Lui mi guardò, disse che sì. Facendosi sentire anche dagli assistenti perché venissero anche loro. 
Io tutto contento me ne tornai a casa, addirittura prima di prendere il traghetto di San Tomà offrii da bere a un paio di gondolieri per la bella notizia, avendomi concesso il “professore” di fare il giorno dopo  il mio esame. La mattina dopo, a primissima ora andai nell’aula magna dei Tolentini, incollai tutti i disegni ai pannelli e aspettai le undici, a quell’ora precisa mi aveva detto il professore di presentarmi. 
Già dalle dieci si era raccolta nell’aula una enorme folla di studenti ai quali si era aggiunta una ventina di gondolieri miei amici, Falanga fa l’esame con Scarpa, finalmente Falanga ce l’ha fatta, andiamo a vedere come Scarpa farà a pezzi Falanga
Il professore alle undici in punto arrivò, si fece portare dal bidello un bicchiere di wisky con cubetti di ghiaccio, poi, senza  degnarmi di uno sguardo, iniziò ad andare avanti e indietro davanti ai disegni facendo tintinnare il ghiaccio nel bicchiere, unico rumore in quel momento ascoltabile in quell’aula improvvisamente silenziosa piena di studenti attoniti, di gondolieri che tifavano per me in silenzio e con me silenzioso ma calmo che pazientemente aspettavo. Non avevamo nulla dirci io e il professore. Lui aveva  osservato i miei disegni per quasi due ora, era arrivato  il momento di concludere.  Si era fatta l’una, il professore aveva terminato il wisky, si fermò fece un cenno ai devoti assistenti e si ritirarono tutti nella studiolo del professore per decidere sul mio destino. 
La porta dello  studiolo si aprì finalmente alle quattro meno un quarto  del pomeriggio, nessuno degli spettatori se ne era andato via, lo spettacolo era impagabile, si aprì la porta dicevo, uscì l’assistente architetto Soccol, che mi guardò con ammirazione e con benevolenza e poi, in strettissimo veneziano mi disse: “Ciò faeanga, bàsighe l’anèo al professor, te ga dà disdòttoFalanga bacia l’anello al professore, ti ha dato diciotto. 
L’applauso fu liberatorio per tutti, tutti sfollarono ed io mi ritrovai solo nell’aula magna dei Tolentini con i miei elaborati dell’esame da togliere da sopra i pannelli, arrotolarli, legarli con un legaccio e quindi andarmene verso casa. Il giorno dopo dovevo laurearmi, quindi dovevo preparare tutto il materiale per la laurea, disegni, plastico e fotografie del medesimo.  
Verso le quattro e mezzo di pomeriggio, era una fresca seretta novembrina il sole era coperto dietro le nuvole, presi il traghetto di San Tomà, salutato cordialmente dai miei amici gondolieri, arrivai dall’altra parte del canale, campo san Samuele e arrivai fino in campo Santo Stefano  dove c’è la famosa statua del cagalibri.  Dovevo attraversare il ponte dell’Accademia ed ero arrivato a casa. Passai quindi davanti il piccolo campo dove c’era il Conservatorio Benedetto Marcello. 
Senza pensarci neanche una volta, svoltai a sinistra attraversai il piccolo campo, entrai  nel conservatorio e chiesi in portineria se c’era per caso qualcuno in segreteria. Mi dissero che sì, al primo piano la seconda porta a destra. Salii bussai ed entrai in un ufficio dove c’era una giovane donna che mi chiese gentilmente cosa poteva fare per me. Le dissi che finalmente dopo due anni ero riuscito a fare il mio esame con il  professor Scarpa, sa sono uno studente architetto dell’IUAV, domani mi devo laureare. Io sono anche un pianista jazz dilettante, erano cinque anni che non suonavo più il pianoforte, sa io abito a Bari e ci andavo una volta o due l’anno, potrei farmi una suonatina da qualche parte su un qualsiasi pianoforte? Ne avrei proprio bisogno. La signorina si alzò, venga con me, facemmo tutto il corridoio, aprì una porta un po’ più grande delle altre e ci trovammo in una sala concerti con una pedana circolare al centro. Sulla pedana c’era, tipo Ferrari, un pianoforte a coda intera marca Petrof. Prego, si accomodi mi disse e se ne andò. Io poggiai per terra il rotolo dei disegni, mi tolsi la giacca, stetti per un attimo fisso a guardare i denti bianchi e neri del mostro che avevo sotto le mani, e cominciai a suonare suonare suonare. Non ricordo una nota di quello che avevo suonato, so solo che smisi dopo un paio di ore. Si era fatta seretta, uscii, la segretaria era andata via, ringraziai la portineria e ripresi la via che mi conduceva dall’altra parte del ponte dell’Accademia. Il ponte era sempre lì. Il fresco era diventato frizzantino ed io arrivai sull’altra riva del canale in souplesse. 

Il giorno dopo mi sarei laureato architetto alle due di pomeriggio e la sera alle venti e trenta avrei preso la Freccia della Laguna per arrivare a Bari alle sette del mattino dopo con un paio di valige pesantissime piene di libri e con una ridicola corona d’alloro intorno al collo. Chiamai un porteur e gli dissi se mi dava una mano fino a via Celentano 82. Il porteur mi disse di sì. Legò le due valige con una cintura per pantaloni la mise sulla spalla, una valigia davanti e una valigia dietro e partimmo alla volta di via Celentano 82 dove abitavo. Durante il tragitto mi chiese che cosa significasse quella corona di alloro intorno al collo ed io gli dissi che il giorno prima mi ero laureato architetto a Venezia. Arrivammo davanti la porta di casa, al secondo piano, gli chiesi quanto gli dovevo e lui mi disse: “architetto offre la casa” e se ne andò. Suonai il campanello e aspettai che qualcuno mi venisse ad aprire, non avevo detto loro che in quel periodo mi stavo laureando. 
franz falanga


Alcuni scatti dell'ultimo esame e della tesi di Franz Falanga, alla presenza di Giuseppe Samonà e Carlo Scarpa.










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